Ci è utile partire dalla comprensione approfondita del significato di “comunicazione di sostenibilità”.
Innanzitutto la “comunicazione” non è marketing; quest’ultimo termine ha in sé la radice “market” cioè mercato e si riferisce alle attività di comunicazione a supporto di un processo di go-to-market di un’idea, di un servizio oppure di un prodotto; porta con sé in maniera esplicita l’intenzionalità della persuasione e della vendita.
Il termine comunicazione invece deriva dal latino “cum + munis”, cioè condividere, mettere del valore in comune, porta con sé anche la responsabilità dell’adempimento di una mansione pubblica.
La sostenibilità può essere oggetto di comunicazione, di condivisione di un percorso collettivo ma difficilmente oggetto di un percorso di marketing. E’ una differenza di scopo e di contenuto, non di media o di canale.
E poi il termine “sostenibilità”, cosa significa in fondo per un’impresa comunicare la sostenibilità?
Se ci pensiamo bene la comunicazione di sostenibilità non esiste!
L’impresa può comunicare i suoi risultati economico-finanziari, il suo modello di governance, la propensione all’innovazione oppure la sua leadership; ma non la sostenibilità, perché la sostenibilità in un’impresa è tutto, è trasversale ad ogni verticale funzionale e organizzativa, tocca il cuore del modello di impresa. Non è un silos che possiamo isolare all’interno di un’impresa ma è produzione, fornitori, gestione delle persone, logistica, energia, distribuzione, prodotti e molto altro.
Chiarito il significato di questi due termini, si definisce quasi in automatico l’indirizzo di cosa debba essere la sostenibilità in un’impresa e di conseguenza la sua comunicazione.
Spesso mi viene da fare un paragone con la pratica dell’”innesto”, presa dal mondo del giardinaggio e che ha il significato di mettere insieme due razze diverse di piante; normalmente l’obiettivo è quello di accelerare l’adattamento della pianta (nel nostro caso l’Azienda) al cambiamento dell’ambiente in cui cresce, oppure per aumentare la sua produzione di frutta. E’ una valida alternativa alla semina perché accelera il raggiungimento del risultato. L’innesto (della sostenibilità) si pratica alla parte basale della pianta, il cosiddetto portinnesto che deve essere sano e compatibile con la nuova pianta. Se ci pensate è esattamente quello che succede con l’entrata della sostenibilità in azienda, solo che invece che dalla parte basale, per impattare su tutta l’organizzazione deve partire dai ruoli apicali. E aiuta l’adattamento, la produttività e l’esito trasformativo dell’impresa.
Non è marketing
La complessità che si è creata nello scenario comunicativo della sostenibilità è proprio legata ad un approccio sbagliato; non se ne è capito fin da subito il suo valore strategico e l’approccio iniziale è stato errato, si è pensato di avere a che fare con un nuovo attributo dell’impresa da vendere al mercato. Così non è e così non potrà essere. La comunicazione della sostenibilità assume un valore strategico, impatta sull’identità e sui valori d’impresa, accompagna il cambiamento del modello di fare impresa e reclama un ruolo apicale per la funzione che la rappresenta.
L’ideologia
E veniamo al secondo elemento che ha portato ad un incremento della complessità dello scenario comunicativo.
Il fatto che la sostenibilità impatti il modello di fare impresa entra su un piano anche di natura politica e ideologica. Quando si afferma che l’obiettivo di una azienda non è più solo fare profitto ma rispondere alle esigenze di tutti gli stakeholder mettendo fine alla primazia dell’azionista, allora si mettono in discussione dei dogmi consolidati ormai da oltre un secolo. È vero, si riallacciano i fili con una via italiana al capitalismo, la cosiddetta economia civile, ma si mette in discussione il funzionamento delle dinamiche di mercato in relazione sia alla sua autoregolamentazione sia alla equa ridistribuzione della ricchezza. Su questo dibattito le parti non ascoltano ragioni, si chiudono inderogabilmente nell’assenza di ascolto, il confronto diventa sterile, si fa fatica a scendere su un approccio concreto e pragmatico.
La sostenibilità è comunicazione
La comunicazione di un rinnovato modello di impresa si manifesta di conseguenza su diverse direttrici:
- La comunicazione interna per definire una nuova cultura, una nuova piattaforma valoriale e condividere il purpose, lo scopo ultimo aziendale;
- La comunicazione con gli stakeholder finalizzata a attivare il coinvolgimento, a stabilire le aspettative, condividere obiettivi e percorsi comuni;
- La comunicazione esterna per valorizzare il percorso fatto, gli obiettivi raggiunti e quelli da raggiungere.
Risulta evidente che la funzione della comunicazione della sostenibilità è quindi triplice:
- Formare: l’impresa deve avere la capacità di essere divulgativa, di fornire ai propri stakeholder gli strumenti per analizzare e comprendere la complessità - semplice ma non banale;
- Coinvolgere: è la fase della condivisione e della co-progettazione del percorso trasformativo da affrontare;
- Informare: per tenere tutti motivati e aggiornati sull’avanzamento del viaggio verso la sostenibilità.
Questo scenario impone all’impresa di doversi conquistare affidabilità in quanto fonte di informazioni (50% dei siti informativi sono fake), oltre alla fiducia degli stakeholder, di collaborare nella definizione delle aspettative e infine di eliminare ogni forma di autoreferenzialità (su questo ci torneremo).
Quindi una vera e propria tripla AAA: Autorevolezza, Aspettative e (non) Autoreferenzialità.
Una volta l’aristocrazia operaia di Olivetti aveva un motto che era quello di “innanzitutto saper fare, poi fare e infine, eventualmente, far sapere”.
Oggi lo dobbiamo rivisitare ai fini della sostenibilità e trasformarlo come segue: innanzitutto insegnare il saper fare (formare), poi fare insieme (coinvolgere) e infine far sapere (informare).
Washing e Hushing
È naturale che le imprese, specie quelle piccole e medie, siano disorientate sul come procedere nella loro comunicazione corporate. Il tema è sicuramente complesso, il pubblico ha conoscenze molto limitate (solo il 16% afferma di comprendere il significato del termine ESG - Indagine Norstat per Green MediaLab) e le ONG e l’opinione pubblica sono estremamente aggressivi sui fenomeni di X-washing (più o meno consapevole). Per questo si diffonde il fenomeno del X-hushing, cioè del silenzio sui temi della sostenibilità. L’impresa ha paura a dichiarare i propri obiettivi nel timore di non riuscire a raggiungerli, ha paura di raccontare le proprie buone pratiche perché magari si accompagnano a altre situazioni non così “sostenibili”.
La normativa europea ci sta comunque indicando la strada, approvando direttive che pongono al centro della comunicazione affermazioni che siano comprovate da dati accertati.
Qualche tempo fa ho avuto l’opportunità di dialogare con Alessandro Tommasi, il fondatore di Will, una testata giornalistica online che in breve tempo ha raccolto circa 1,5 milioni di follower su Instagram, in gran prevalenza giovani.
Come ha fatto?
Per lui le parole chiave sono due e penso valgano anche per la sostenibilità: spacchettare la complessità e portare i temi e i dati al centro del dibattito. L’unico antidoto ad ogni forma di “washing”.
Senza la comprensione dell’oggetto della comunicazione diventa difficile procedere con la narrazione - la premessa vera è comprendere la vastità del processo trasformativo che l’impresa deve affrontare e comprendere se la propria azienda sta affrontando la sfida in maniera sistemica. Non avere attivato tutti i cantieri di trasformazione non significa esporsi a critiche, ma è fondamentale averne la consapevolezza e avere disponibili dei piani di attività futura.