L'origine del termine
Il primo uso della parola “greenwashing” è legato all’ambientalista americano Jay Westerveld: nel 1986 la utilizzò per descrivere l’abitudine negli hotel di lasciare nelle camere avvisi per invitare i clienti a riutilizzare gli asciugamani invece di chiederne il lavaggio, “così da salvare l’ambiente”. Per Westerveld gli hotel potrebbero fare molto di più per l’ambiente (per esempio nella riduzione dei consumi energetici) e quello che fanno con gli asciugamani “lo fanno solo per risparmiare sui costi di lavanderia. Il vero obiettivo è l'aumento del profitto”. Ecco allora il significato originale di greenwashing: azioni comunicate come finalizzate al rispetto dell’ambiente ma in realtà inefficaci o finalizzate comunque al profitto.
È ancora attuale questo significato? E se è un fenomeno con oltre 35 anni perchè se ne parla tanto in questo periodo? E perchè si riscontrano tanti casi che ne testimoniano la crescente diffusione?
Per una riflessione completa ci è utile risalire la corrente e comprendere fino in fondo perchè oggi la sostenibilità è così centrale nelle strategie e nella comunicazione delle aziende.
Il punto di vista dell'azienda
Da un punto di vista interno all’azienda sono ormai superati i tempi in cui questi temi erano di esclusiva proprietà di una singola funzione aziendale, oggi è diffusa la consapevolezza che il viaggio verso la sostenibilità è un’operazione strategica di cambiamento che parte dalla cultura aziendale per costruire un nuovo modello di impresa coinvolgendo tutte le funzioni aziendali e tutti gli stakeholder.
Per questo nel campo della comunicazione si parla di riposizionare il brand nei confronti delle nuove variabili che la sostenibilità mette in campo; stakeholder e temi materiali devono diventare termini famigliari per il comunicatore e rappresentare tappe importanti nella strategia di Brand Positioning.
Nei confronti dell’esterno, invece, le aziende si trovano a dover rispondere ad una forza sempre più pressante dei propri stakeholder, e il greenwashing si diffonde a fronte del tentativo di comunicare servizi e prodotti rispettosi dell’ambiente, ma che spesso in realtà così non sono. Siamo tutti sommersi da claim “verdi” e da termini ormai senza significato come “sostenibilità, plastic free, eco compatibile, net zero, impatto” che rischiano di farci percepire un mondo delle aziende che corre rapidamente verso modelli sostenibili, mentre in realtà le emissioni aumentano di anno in anno, come anche lo sfruttamento delle materie prime e della natura.
I sette peccati del greenwashing
È del 2007 il tentativo più efficace che categorizza le varie tipologie di greenwashing. Viene compiuto da Terrachoice sotto il titolo di “The Seven Sins of Greenwashing”. Ecco i 7 peccati capitali:
- Sin of the hidden trade off - focus del messaggio comunicativo sugli effetti positivi non citando invece gli impatti negativi
- Sin of no proof - affermazioni poste al centro della comunicazione senza informazioni e dati a supporto
- Sin of vagueness - utilizzo di terminologie vaghe, con un significato che può venire frainteso
- Sin of worshiping false labels - diffusione di etichette o certificazioni false
- Sin of irrelevance - porre risalto su informazioni ambientali non utili o irrilevanti
- Sin of lesser of two evils - lasciar trapelare nella comunicazione il minore dei mali, distogliendo così dal peggiore dei mali
- Sin of fibbing - affermazioni false
Come si può facilmente notare da questa classificazione, il greenwashing non è solo o maggiormente relativo alla diffusione di informazioni non veritiere ma si manifesta anche a fronte di un linguaggio vago o di una rappresentazione parziale dell’impatto di una azione.
Possiamo ora tornare al significato attuale del termine.
La piattaforma Greenwash.com definisce il greenwashing come il fenomeno che “tricks us into believing change is happening, when in reality it’s not” e la Treccani lo definisce “strategia di comunicazione o di marketing perseguita da aziende, istituzioni, enti che presentano come ecosostenibili le proprie attività, cercando di occultarne l’impatto ambientale negativo”.
Quindi si tratta di una pratica di comunicazione che diffondendo una percezione errata dei reali sforzi sul percorso della sostenibilità, determina molteplici effetti negativi tra cui i più rilevanti sono:
- In generale mina alla base la fiducia dell’opinione pubblica e dei consumatori nei confronti delle aziende e della loro genuina volontà di ridurre gli impatti negativi o di generarne di positivi
- Rappresenta per la singola azienda un rischio reputazionale elevatissimo nei confronti di tutti gli stakeholder
- Si colloca al limite della concorrenza sleale, laddove viene percepito come più “sostenibile” colui che comunica meglio pur magari agendo di meno di altri
- Orienta in maniera fraudolenta il comportamento degli stakeholder
Si inaugura un periodo in cui sarà molto importante un approccio selettivo nei confronti delle pratiche di sostenibilità, dovremo studiare e implementare nuove e migliori normative, standard e indicatori che davvero rappresentino fedelmente l’impatto degli operatori economici e ci permettano quindi di premiare coloro che si dimostreranno realmente virtuosi.