Allarme greenwashing sui mercati e nei portafogli. Il ricorso diffuso a un belletto ecologico su bilanci per altri versi a forte impatto ambientale impone una riflessione ai regolatori, ai cittadini, alle imprese. Anche perché l’industria mondiale degli investimenti “sostenibili” ha raggiunto i 35 mila miliardi di dollari e tutti ne vorrebbero una fetta, anche chi non ha fatto i compiti a casa.
Ne parliamo con Ichrak Bouchmim, project manager di Legambiente per il progetto Ace Alliance for Clean and Inclusive Finance, che l’ONG ecologista italiana sta portando avanti con l’ONG l’olandese T&E e una rete di associazioni e soggetti impegnati in una stringente advocacy per la credibilità di una strategia di finanza sostenibile a livello europeo. Il progetto segue e analizza le diverse fasi degli iter legislativi e dei regolamenti in materia di reportistica di sostenibilità.
La sensazione diffusa è che dentro etichette come “naturale”, “sostenibile”, “ESG” ci sia poco sia al supermercato che in banca…
«Siamo in una fase di cambiamento profondo e di ristrutturazione delle regole europee, il quadro generale dell’armonizzazione delle definizioni di “ESG” o “sostenibile” a livello europeo sta attraversando dei passaggi importanti. Entro la prossima estate l’EFRAG della Commissione Europea dovrebbe elaborare nuovi standard per le imprese e allargare la platea di aziende europee obbligate a pubblicazioni sostenibili a circa 49 mila. Lo stesso passaggio formale da “Documentazione Non Finanziaria” a “Reportistica di Sostenibilità” indica un approccio positivo che ci lascia ben sperare. D’altronde i tempi saranno lunghi e nella maggior parte dei casi solo nel 2025 vedremo i nuovi report sui dati del 2024. Sostanzialmente questa scadenza varrà per le grandi quotate con più di 500 dipendenti, per quelle con oltre 250 dipendenti ci sarà un altro anno in più. Inizialmente la proposta prevedeva un recepimento nazionale entro la fine del 2023, ora l’accordo prevede un periodo di recepimento di 18 mesi. C’è d’altronde il problema di mettere d’accordo i Paesi europei su questioni fondanti come l’energia e in un periodo di crisi geopolitica come questo».
Deriva da questo la decisione di introdurre nella tassonomia europea nucleare e gas come fonti energetiche di transizione? Cosa ne pensate?
«Il recente atto delegato in materia è frutto di un compromesso faticoso tra Stati con storie ed esigenze molto diverse nel contesto di una pressione sul fronte dell’offerta energetica che rende difficili scelte lucide e lungimiranti. Il quadro europeo è comunque concretamente articolato, basti pensare al nucleare francese e al carbone di gran parte dell’Europa dell’Est e della Germania, basti pensare alla dipendenza dal gas dell’Italia e di altri Paesi. Non mancano comunque dure opposizioni, come quelle di Lussemburgo e Austria e di molte associazioni che sicuramente faranno ricorso da novembre.
Al riguardo è sicuramente utile evidenziare che nei giorni scorsi European Consumer Organisation (BEUC), Birdlife Europe and Central Asia, Environmental Coalition on Standards (ECOS), Transport & Environment e WWF European Policy Office, membri essenziali della Piattaforma per lo Sviluppo Sostenibile che supporta la Commissione Europea sull’elaborazione tecnica della tassonomia hanno abbandonato per protesta l’incarico, affermando che i governi europei e le lobby hanno gravemente minato la credibilità della tassonomia e che la Commissione ha ceduto alle loro pressioni. Secondo le bozze circolate, le centrali a gas potrebbero ottenere l’etichetta “ESG” se rispettassero criteri generosi come 270 g di CO2 equivalenti per kWh o emissioni annuali da 550 kg di CO2 a kW in 20 anni: in pratica sarebbe un via libera accomodante all’attuale parco energetico inquinante, così com’è, perché il lasso di 20 anni per il calcolo permetterebbe di diluire e sterilizzare gli impegni all’efficientamento.
Di là dal caso specifico, occorre comunque evidenziare la necessità di illuminare la complessità di queste tematiche. Probabilmente, come la stessa Piattaforma Europea per la Finanza Sostenibile della Commissione ha evidenziato, occorre passare da una logica binaria dentro/fuori nei panieri sostenibili a una logica da “semaforo” con più opzioni che rendano giustizia all’articolazione delle varie istanze di sostenibilità».
Legambiente ha registrato una importante vittoria su Eni nel gennaio 2020: la sanzione massima prevista di 5 milioni di euro per pubblicità ingannevole sul Biodiesel tra il 2016 e il 2019. L’Antitrust (che difende in Italia anche le istanze dei consumatori) vi ha dato ragione. Ma oggi parlano di sostenibilità anche la Consob e la Bce. Chi in pratica può e deve sorvegliare la trasparenza della reportistica sulla sostenibilità?
«Anche questo è un problema. Attualmente l’Unione Europea demanda agli Stati membri l’incarico di decidere le autorità specifiche nazionali per il monitoraggio e l’impianto sanzionatorio che è ancora nebuloso e secondo noi essenziale per una reale efficacia di tutta la traiettoria economica green che l’Europa ha ribadito con il Next Generation EU. Sul tema del monitoraggio e delle sanzioni il Consiglio Europeo ha in pratica bloccato tutte le misure proposte dalla Commissione, escludendo in pratica dal confronto il Parlamento UE, pure chiamato alla partecipazione nel trilogo».
Nel frattempo il mercato più veloce dei regolatori e pone una questione di gestione del rischio. Di recente si è dovuto dimettere l’amministratore delegato del colosso tedesco degli investimenti DWS, dopo uno scandalo legato alla gestione degli investimenti sostenibili. In precedenza c’era stato il caso del Dieselgate di Volkswagen (e non solo). Poco tempo fa, nell’ambito della direttiva SFDR che cataloga gli investimenti sostenibili, Morningstar ha denunciato che il 23% dei cosiddetti “articolo 8” non sarebbero in realtà investimenti ESG. Ci sono impulsi concreti a una regolazione e a una politica sanzionatoria positiva o siamo condannati a etichette generiche poco verificabili?
«Una risposta è difficile. Sicuramente alle associazioni tipicamente in prima linea sull’ambiente, i diritti dei lavoratori o dei consumatori, si sono affiancati anche diversi soggetti del mercato che potrebbero fornire input importanti per una positiva evoluzione del dialogo sulle regole del settore a livello istituzionale. Il punto di caduta finale su aspetti basilari come le sanzioni, la trasparenza, il monitoraggio e i diritti rimane però ancora difficile da individuare. Anche per questioni di politica nazionale e per le note circostanze geopolitiche che stanno forzando il dibattito».